Oggi vi portiamo a scoprire una parte di Africa poco conosciuta, una meta di viaggio insolita ma altrettanto affascinante, un paese dalle incontaminate bellezze naturali e ricco di contrasti: il Congo. Perché nel nostro sito abbiamo deciso di parlarvi proprio del Congo? Non perché l’abbiamo visitato, non perché abbiamo dei consigli di viaggio da condividere, non perché abbiamo pianificato un viaggio, ma da Cosmopolite e curiose quali siamo, perché ci teniamo a raccontarvelo attraverso gli occhi dello staff di Medici Senza Frontiere con Valeria, infermiera e operatrice umanitaria dello staff di Medici Senza Frontiere che ha preso parte alla missione in Congo da settembre 2015 a luglio 2016.
Valeria ci racconta un Congo diverso, un Congo autentico visto attraverso gli occhi di chi opera in missioni umanitarie. Un Congo fatto di colori, di profumi, di sapori, ma anche di sofferenze, di stenti e di ingiustizie. Un paese che da solo non può sopravvivere, per cui si rende necessario l’intervento di organizzazioni umanitarie come la Onlus Medici Senza Frontiere.
Il Congo, o meglio Repubblica Democratica del Congo, quel vasto territorio dell’Africa centrale che si estende sul bacino dell’omonimo fiume è un paese tanto affascinante dal punto di vista naturalistico quanto instabile politicamente. Un paese ricco di contraddizioni, con una crescita annua della popolazione del 3,2% e una mortalità infantile di circa l’80 per mille. Un paese caratterizzato da un dualismo tra la zona occidentale (apparentemente più stabile) e la zona orientale (teatro ancora di scontri tra le varie etnie locali). Un dualismo che porta inevitabilmente ad una forte instabilità politica ed economica, una divisione che si rispecchia anche nel clima, il nord con le sue rigogliose foreste equatoriali e l’ardente terra rossa e il centro-sud, la savana, caratterizzato da estrema siccità e clima secco. Nonostante i disagi legati ai conflitti interni, le principali cause della decimazione della popolazione del Congo non sono di origine militare, bensì sono legate alla malnutrizione e alle precarie condizioni medico sanitarie che rendono necessario l’intervento di volontari e di organizzazioni umanitarie come Medici Senza Frontiere.
Non vogliamo svelarvi altri dettagli e vi invitiamo a leggere con attenzione e col cuore aperto l’esperienza di Valeria e della sua missione umanitaria con lo staff di Medici Senza Frontiere.
Valeria raccontaci la tua esperienza con Medici Senza Frontiere e di cosa ti occupi
La scelta di prender parte alle missioni umanitarie di Medici Senza Frontiere è maturata durante il periodo universitario, ho intrapreso la facoltà di infermieristica con l’obiettivo di poter lavorare in un contesto umanitario. E’ proprio durante questo percorso di studi che ho iniziato a interessarmi delle attività svolte da Medici Senza Frontiere (MSF), una Organizzazione Non Governativa (ONG) fondata nel 1971 da due giornalisti della rivista medica “Tonus” Raymond Borel e Philippe Bernier che, basandosi sui principi di umanità, neutralità, imparzialità e indipendenza offre assistenza medica alle popolazioni mondiali colpite da conflitti, epidemie, catastrofi naturali o semplicemente escluse dall’assistenza sanitaria.
La mia prima missione con Medici Senza Frontiere risale al maggio 2013, quando mi è stato proposto il ruolo di infermiera per una campagna di vaccinazione contro la meningite in Sud Sudan. L’emozione è stata fortissima, la mia prima esperienza internazionale sul campo. A questa prima esperienza sono poi seguiti quattro intensi anni dedicati a missioni umanitarie in tutto il mondo: Iraq, Haiti, Repubblica Centrafricana, Congo ed Etiopia dove ho lavorato come infermiera responsabile della gestione di un reparto dell’ospedale e punto di riferimento dello staff medico. Il mio lavoro consisteva nell’organizzare i turni del personale locale (un’impresa!), supportare l’équipe infermieristica, assicurare la corretta applicazione dei protocolli e delle misure di igiene (anche se di igiene non sempre si può parlare in questi paesi), e pianificare i corsi di formazione per il personale locale, quasi digiuno di nozioni infermieristiche. Si tratta di un lavoro molto diverso da quello che un’infermiera si aspetterebbe di svolgere in un ospedale in un contesto europeo.
Di tutte queste esperienze vi voglio raccontare quella che è per me la missione a cui sono più legata, quella che mi ha segnato profondamente e che mi ha fatto innamorare del continente Africano. Si tratta della missione umanitaria nella Repubblica Democratica del Congo dove ho lavorato come infermiera sul territorio e come referente medico di una piccola équipe d’urgenza sul campo.
Da due anni a questa parte mi occupo, per Medici Senza Frontiere, principalmente della gestione medica dei progetti, del corretto funzionamento degli ospedali e delle attività sul territorio dove andiamo ad operare. Devo accertarmi che tutte le attività mediche vengano svolte nel rispetto dei protocolli e delle misure d’igiene, che la qualità delle prestazioni sia sempre di alto livello, per quanto possibile, e conforme al contesto in cui operiamo. Nel mio lavoro è preponderante la parte di sorveglianza e epidemiologia per comprendere l’andamento delle patologie laddove risulta normale o diventa necessaria una valutazione più accurata e un eventuale intervento medico, un’analisi continua del contesto per poter preparasi in tempo ai bisogni stagionali o a inaspettate catastrofi.
Un altro aspetto molto importante del mio lavoro è la comunicazione e le relazioni con le autorità locali per permettere a Medici Senza Frontiere di lavorare in modo autonomo e in armonia con il Ministero della Salute.
In ultimo, ma non meno importante è la gestione e il sostegno di tutto lo staff nazionale (locale) e internazionale (expat) al fine di creare un clima positivo e costruttivo all’interno del team sia nel contesto lavorativo che in quello sociale. Vivere sotto lo stesso tetto con più di 10-15 persone richiede un grande senso di adattamento, un buon senso della vita comunitaria, tolleranza ma soprattutto il rispetto verso l’altro dal punto di vista umano e lavorativo.
Che cosa ti ha particolarmente colpita del Congo?
La Repubblica Democratica del Congo è un paese che racchiude nel suo territorio enormi ricchezze economiche come i diamanti, l’avorio, l’oro, il coltan, l’uranio, la gomma etc. dall’altra parte si tratta di un paese segnato da decenni di sanguinosi conflitti, da un lungo processo di colonizzazione che pone le basi per guerre etniche e genocidi. Un paese stravolto da constante senso di insicurezza che si avverte tutt’oggi, soprattutto a est del paese spesso teatro di sanguinose guerre tra la popolazione.
Conflitti che hanno devastato il territorio, la flora e la fauna del posto, ma che non hanno impedito a questo splendido paese di continuare a risplendere con le sue rigogliose foreste, i piccoli sentieri che s’inerpicano per colline e i verdi prati che nascondono i remoti villaggi delle etnie locali. Un paese dalle tinte forti, che ti presenta senza mezzi termini le due violente facce della stessa medaglia.
Anche le condizioni climatiche talvolta non agevolano l’intervento delle organizzazioni umanitarie. Durante i mesi più piovosi, maggio, giugno e da settembre a novembre, il terreno diventa particolarmente fangoso e impraticabile e le condizioni delle strade non permettono facili spostamenti. Spesso ci è capitato di rimane bloccati per ore con le ruote delle macchine inghiottite dal fango dove l’unica soluzione è cercare di liberare la macchina dalla morsa di questa terra che non sempre lascia la presa. Molto spesso siamo stati costretti a fare retromarcia e tornare al campo base per tentare di ripercorrere la stessa strada in condizioni migliori.
Il Congo è tutto questo e non solo. Mi ha particolarmente colpita anche dal punto di vista umano. Questo paese è infatti il territorio di un popolo che ha subito molte ingiustizie e maltrattamenti, un paese messo in ginocchio che fa fatica a riappropriarsi del proprio presente e a guardare verso il futuro.
E’ facile intuire come in questo paese il sistema sanitario è perlopiù inesistente e si basa sostanzialmente sul supporto di ONG e di aiuti internazionali, che non sempre sono disponibili e molto spesso insufficienti per le criticità della popolazione congolese.
Questi diversi aspetti mi hanno legata molto al Congo, ho potuto sentirmi veramente utile, ho avvertito la necessità del mio aiuto, di come un piccolo gesto possa essere di grande aiuto per la popolazione, sembra una frase fatta ma vi posso assicurare che è proprio così. Durante questa missione ho avuto la possibilità di lavorare con un’équipe medica e logistica molto competente, che per un anno e mezzo ha costituito la mia famiglia adottiva. In loro ho visto un sincero legame e un forte impegno verso le attività che Medici Senza Frontiere svolge. Da loro ho imparato e appreso competenze e conoscenze di cui prima negavo l’esistenza e ho stabilito una forte relazione di lavoro e di amicizia che ha permesso questo scambio e questa forte intesa con lo staff locale.
Tutt’oggi quando le persone mi chiedono della mia esperienza in Congo, il mio ricordo va a queste persone con cui ho alternato momenti di intenso lavoro, tensioni, discussioni e dove mi sono trovata in situazioni dover imparare a conoscere gli altri e anche me stessa. Un’esperienza ricca anche di momenti di condivisione trascorsi ad ascoltare le storie della popolazione locale e legende sulla cultura, politica e tradizione di questo grande Paese nel bel mezzo dell’Africa.
Come è cambiata la tua visione del Congo dopo l’esperienza con la Onlus Medici Senza Frontiere?
Quando ho terminato la missione nel luglio 2016, la Repubblica Democratica del Congo si preparava per le elezioni che avrebbero dovuto aver luogo in dicembre dello stesso anno. Sfortunatamente questo non è ancora accaduto, e ha alimentato ulteriori tensioni e violenze all’interno del Paese. La popolazione avverte la tensione all’interno del paese e si respira uno scontento generale dovuto all’instabilità della situazione attuale.
Medici Senza Frontiere lavora principalmente in piccoli villaggi remoti, lontani dai principali centri urbani dove la popolazione locale vive sostanzialmente di agricoltura di piantagioni di manioca, canna da zucchero, arachidi, palma da olio etc. Alcune famiglie hanno il proprio piccolo negozio dove vendono un po’ di tutto (dal sapone alle cipolle, dalla pasta di pomodoro, al riso, dal tonno alle sigarette, etc.), mentre altre famiglie si guadagnano da vivere vendendo i propri prodotti al mercato. Il mercato. Sì perché ogni paese si caratterizza anche dai propri mercati che ne rivelano l’identità e l’autenticità. In Congo il mercato si presenta come un tripudio di colori, rumori e profumi, dove generalmente le donne hanno il monopolio di vendita influenzando in modo talvolta prepotente la clientela.
Se ripenso a questo paese dopo la mia esperienza non posso fare a meno di emozionarmi, lo sento molto vicino al cuore anche per il fatto di aver preso parte ad una missione in situazioni di emergenza, molto rischiosa, dove si vive quasi alla giornata. E’ una sensazione di nostalgia e amarezza allo stesso tempo per la situazione attuale che non accenna a migliorare; un misto di soddisfazione per quello che ho fatto e di rammarico per quanto ancora c’è da fare con così pochi mezzi a disposizione.
Raccontaci come vivono gli abitanti del Congo?
La maggior parte della popolazione vive in piccole case di una o due stanze, costruite prevalentemente con mattoni di terra realizzati durante la stagione secca e con dei laminati di metallo o di paglia come tetto. La stanza principale è la cucina, dove le donne trascorrono la maggior parte del tempo e che si compone di un grande braciere dove le donne cucinano i pasti che molto spesso si trova all’esterno della casa, il bagno invece è all’aperto e viene condiviso con più famiglie.
Le famiglie sono molto numerose, i bambini vanno a scuola solo se la famiglia se lo può permettere. Le scuole insegnano principalmente in swahili (lingua locale nel Sud Kivu) e raramente anche in francese (il Congo è stato infatti colonia francese per diversi anni). Nonostante decenni di colonizzazione, la popolazione congolese è ancora molto incuriosita dall’ “uomo bianco” tant’è che la parola “mwsungo” (bianco) è ancora molto diffusa e utilizzata indistintamente da adulti e bambini per indicare il “diverso”, non in senso dispregiativo tuttavia.
Qual è stata la difficoltà maggiore durante la missione umanitaria di Medici Senza Frontiere in Congo?
Il momento di fare delle scelte è sempre quello più difficile. In questo caso particolare è stato molto difficile dovere decidere quali cure somministrare alla popolazione, soprattutto ai bambini, dover diagnosticare le eventuali malattie e stabilirne le cure coi pochissimi mezzi a disposizione. L’assistenza sanitaria che offriamo sono sempre basate sul principio della qualità dei trattamenti, ma non è possibile garantirlo, soprattutto in condizioni così precarie. Questo dipende da molte variabili come il contesto in cui si opera, il livello di sicurezza, le condizioni logistiche, la presenza di spazio sufficiente, il consenso del paziente etc.
Ricordo che in Congo, in un piccolo Centro di Salute ho gestito per una volta alla settimana una clinica di malnutrizione per bambini dai 6 mesi ai 5 anni, a cui si distribuiva previa misurazione antropometrica e del peso, una razione di cibo terapeutico e dopo la consultazione con l’infermiera si invitava la madre a tornare lo stesso giorno della settimana seguente. Molti bambini crescevano e aumentavano di peso ed era una gioia vedere le madri prendersene cura e avere quelle ore di intimità con i loro pargoli. Molto spesso il peso non aumentava a causa di altre complicazioni che imponevano il trasferimento in un ospedale Medici Senza Frontiere (a oltre 40 km di distanza) dove in un centro di stabilizzazione i malati avrebbero potuto ricevere assistenza sanitaria e cure più intensive e appropriate alla loro situazione. Sfortunatamente non sempre il trasferimento avveniva accettato e spesso le madri non potevano permettersi di stare lontano dalla loro casa per una o più settimane, poiché non potevano lasciare da soli gli altri figli o semplicemente dovevano gestire le faccende domestiche e il lavoro nei campi. Inizialmente il loro rifiuto mi faceva molto male, lo percepivo come un senso di superficialità e egoismo, cercavo così di fare capire l’importanza dell’assistenza sanitaria alla madre. Ben presto mi resi conto che ci sono delle barriere culturali che non si possono abbattere e delle situazioni che devono essere accettate come tali. Questo aspetto si comprende solo viaggiando e confrontandosi con la cultura locale. Mi sono tristemente resa conto che un modo per rispettare la popolazione, le loro scelte e la loro cultura, è quella di accettare con consapevolezza i propri limiti come persona, ma anche come organizzazione umanitaria.
C’è un ricordo che vorresti condividere con noi e che ti ha colpito della tua esperienza in una Onlus come Medici Senza Frontiere?
Certamente. Ricordo che nell’aprile 2016 Medici Senza Frontiere ha organizzato una campagna di vaccinazione contro il morbillo a causa di un elevato numero di casi sospetti e in seguito confermati. Un giorno, durante la seconda fase della campagna, mi informarono che in un piccolo villaggio di pigmei di circa 300 abitanti, rifiutano la vaccinazione per motivi legati a un credenza locale. A questo punto noi dello staff di Medici Senza Frontiere decidemmo di andare a fare visita in questo villaggio dove veniamo accolti dal capo dei pigmei, ci sediamo e iniziamo cercare di capire il motivo di questo rifiuto apparentemente senza senso per noi. Trovammo il personaggio in questione molto fermo con le sue idee, decidiamo di non soffermarci troppo sulle informazioni legate prettamente alla salute, sarebbe stato tempo perso. Optiamo quindi per un approccio più diretto e decidiamo di mostrargli alcune foto scattate durante la campagna di vaccinazione e di quante persone stavano in piedi sotto il sole cocente per ricevere il vaccino, cerchiamo inoltre di rassicurare le sue paure e di proporre la possibile visita da parte di un piccolo team senza che la popolazione del villaggio debba spostarsi. E’ così che dopo un paio d’ore di negoziazione e discussione riusciamo ad avere il consenso della comunità per iniziare l’assistenza sanitaria e le vaccinazioni dal giorno seguente. E’ stata una grande conquista per noi.
Sono rimasta impressionata dalla determinazione e dalle ferme convinzioni della comunità di pigmei nel portare avanti certe credenze e titubanze riguardo alla medicina occidentale e ad opporsi ad essa come qualcosa di nocivo e tendenzialmente pericoloso. Quest’opera di convincimento, quasi ai limiti della negoziazione, sia un momento molto critico e delicato in cui bisogna comprendere la persona con cui si sta discutendo senza perdere mai di vista il proprio obiettivo e cercare di gestire il momento in modo rispettoso, cordiale cercando di perseguire il bene della comunità e il rispetto della vita.